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martedì 15 aprile 2014

Cile e catastrofi



Le notizie catastrofiche arrivate dal Cile mi hanno riportato alla realtà dei fatti: Il Cile,una lunga striscia di terra di quasi 5000 km con una larghezza media di 200 km,chiusa quasi interrottamente ad est dalla Catena delle Ande,la colonna vertebrale dell'America del Sud, e ad ovest dal maestoso oceano Pacifico , è il paese più “tremolante” al mondo.
Dati alla mano basterebbe prendere i 2 terremoti più forti che lo hanno colpito dal 2010 ad oggi , per l' esattezza rispettivamente Febbraio 2010 magnitudo 8.9 e Aprile 2014 magnitudo 8.2, per consegnare al Cile questo preoccupante primato. Se questo non dovesse bastare ,per rendere l'idea, si può guardare alla classifica dei mega terremoti, il più intenso mai registrato al Mondo avvenne in Cile nel 1960, al sud nei pressi della città di Valdivia, quella volta la magnitudo era 9.5. Un livello così alto nella scala Richter inimmaginabile per noi Italiani.
Di terremoti così intensi i Cileni ne aspettano uno ogni 10 anni,questa è più o meno la frequenza osservata nell'arco di 150 anni. In uno scenario così apocalittico il temutissimo big one,lo spauracchio di tutti gli abitanti di S. Francisco, è una spada di Damocle pendente sul capo di ogni Cileno. Chiaramente questo ciclo infernale è ritmato da una miriade di terremoti minori,che i Cileni chiamano tremori,se inferiori a 7 gradi di magnitudo.
Ad ognuno di noi basterebbero queste statistiche per convincerci definitivamente ad eliminare il Cile come meta per le nostre vacanze. In effetti,io ,prima di arrivare a Valparaiso e cominciare il viaggio, due o tre scongiuri li ho fatti.
In Cile però le preoccupazioni maggiori non arrivano dai terremoti,ma dagli Tsunami . Basti pensare che nel terremoto del 2010 quasi tutte le vittime (circa 700) sono morte a causa delle mareggiate arrivate poche ore dopo. Anche il 2 aprile scorso il toto-Tsunami ha tenuto con il fiato sospeso i milioni di abitanti delle coste cilene e gli altri vicini costieri di tutta L'America LATINA ,sponda Pacifico. Per fortuna l'allarme è rientrato presto.
In uno scenario così apocalittico l'unica alternativa all'esodo di massa dei 17 milioni di cileni è l'organizzazione e la prevenzione. Sopratutto dopo il 2010 ogni cileno conserva una valigia pronta con l'occorrente : documenti,vestiti, medicine e qualche scatoletta , ai lati del letto o della porta d'ingresso,ma comunque ben visibile per ricordare costantemente l'effettività della minaccia.
L'altro promemoria della catastrofe, onnipresente nelle città costiere cilene , è il cartello verde con omino bianco in fuga,recante la scritta : “via di fuga”, al lato una freccia bianca punta le colline,l'unico rifugio in caso di Tsunami.
Guardando da vicino le Ande oltre ad prezzare la bellezza e maestosità di 6000 metri di montagne e delle rispettive vette innevate,che giocano con i colori durante il giorno, si può costatare anche la loro natura. Molte sembrano montagne mozzate si tratta chiaramente di vulcani.
Le Ande cilene annoverano un numero altissimo di vulcani,spenti ,assopiti o attivi. Nel mio lungo viaggio posso vantare di essere scampato all'eruzione di uno dei tanti vulcani nel regione del Bio Bio, 500 km a sud di Santiago.
Eravamo in viaggio verso Chillan,la capitale della regione, per far visita ad una nostra cara amica. Nel tragitto in autostop in 200 km ho contato 5 vulcani. L'eruzione avvenne giusto il giorno successivo alla nostra partenza. Le immagini dei lapilli che venivano sputati fuori dalla pancia del vulcano e della cenere che ricopriva interamente le città erano onnipresenti sui telegiornali in quei giorni di eruzione, per fortuna normale e non catastrofica.
Mi trovavo in un paesino a 3500 mt di altezza,sulla frontiera tra Cile e Bolivia. Tanto per cambiare il cartello di benvenuto al paesello ,oltre a riportare le informazioni sul numero di abitanti e l'altezza del villaggio,esordiva con “Ollague, terra di Vulcani e salari eterni”. Ollague è il nome del vulcano dormiente che si trova giusto sulla frontiera,un gigante addormentato di 5 mila e passa metri. I soliti cartelli “via di fuga” puntavano a una montagna,un po' più bassa,meno imponente e innevata. Dall'altra montagna si levava una nuvola bianca. Rimasi scioccato quando ,chiedendo se si trattasse di una valanga, mi risposero che la nuvola bianca in realtà era fumo e che l'innocua montagna era un vulcano attivo. Insomma mi trovavo di fronte al paradosso: le poche centinaia di abitanti del villaggio,in caso di eruzione del gigante addormentato avrebbero dovuto correre fino alle pendici di un vulcano attivo per ripararsi.

Quando passeggiavo lungo la costa o quando un piccolo tremore mi cullava sentivo tutta la forza di una natura selvaggia e indomita,che in Cile marca in diversissime forme la sua supremazia sull'uomo. I terremoti,gli tsunami e i vulcani sono solo la sua manifestazione più estrema e scioccante. A volte la catastrofe è frutto della cooperazione della premiata ditta uomo natura, questo è il caso degli incendi.
 La baia di Valparaiso, con i costanti venti che si levano dal pacifico ,i verdi boschi che svettano sulle 44 colline che la circondano e il suo clima secco è la miscela ideale per una bomba di fuoco micidiale. Mentre scrivo 10 dei 44 colli di Valparaiso ancora bruciano, 5000 sfollati vagano per la città in cerca di aiuto e corpi carbonizzati vengono estratti dalle macerie delle loro case. E' in atto l'incendio peggiore della storia della città, che pure ne subisce 3 o 4 all'anno.
La prevenzione si scontra con la povertà. I Colli della città sono la parte povera,disseminate di baracche di legno che hanno resistito a terremoti incredibili,ma che bruciano veloce.
In Cile non esiste una protezione Civile,il governo stanzia pochissime risorse per la prevenzioni, pochi piani di aiuto per chi ha perso tutto. Il Cile non previene,ma reagisce. Quando parlavo con i miei amici cileni di terremoti alle mie facce preoccupate,quasi terrorizzate,loro opponevano tranquille risatine. I Cileni hanno imparato a convivere con le catastrofi. I Pompieri che in questi giorni stanno spegnendo il grande fuoco di Valparaiso sono volontari,in Cile non esiste un corpo ufficiale di pompieri, eppure in ogni crisi,sono sempre presenti.
Le immagini del fuoco che mangia gli scheletri delle baracche in questi giorni sono spesso affiancate da interviste a persone che hanno perso tutto,ma non hanno perso la speranza, inferocite con il governo, giurano di ricostruirsi da soli le proprie case,senza alcun tipo di aiuto.
Quando arrivai nelle zone più colpite dal terremoto del 2010, rimanevano pochi segni di distruzione, eppure i ricordi della mia infanzia sono le stradine del centro storico di Tito disseminate di impalcature, erano passati 15 anni dal terremoto dell'Irpinia e la ricostruzione andava a rilento.
Chiaramente il paragone non si pone,ma rimane vivo in me lo stupore verso questo popolo così umile e coraggioso.

Paz,amor y libertad!

venerdì 21 marzo 2014

Bolivia e Coca ovvero: un viaggio allucinante.



BOLIVIA E COCA, OVVERO UN VIAGGIO ALLUCINANTE.
Premetto che il titolo non c’entra molto con il senso del post,ma suona bene. Non parlerò di come ho macinato km e km di strada grazie ad aiutini speciali. Per rassicurare mia madre: “non ho mai pippato in Sudamerica,ma anche in generale”.
Anche se quando mi parlavano del sali-scendi con un’altezza costante di 3000 metri e mi descrivevano la coca come un tocca sana ,una sorta di panacea contro tutti mali da aria rarefatta, mi immaginavo i Boliviani con i loro cappelli di lana di alpaca e lama chiusi nei bagni pubblici a tirar sù raglie chilometriche. Ma ovviamente non è così, anche se il paradosso dell’immagine mi stuzzicava molto.

La coca intesa come pianta proprio  non me la immaginavo. Rimasi stupito quando in un mercatino etnico cileno il mito si palesò davanti ai miei occhi sotto forma di foglia verde ,simile per forma e colore a una foglia di tè comune. Di straordinario in quella manciata di foglie c’era solo il prezzo, un sacchetto con  una cinquantina di grammi costava intorno ai 10 euro un’enormità visto il prezzo della coca autoctona boliviana. Ma nonostante il mio primo contatto visivo fosse stato una vera delusione rimasi più che mai convinto di provarla non appena fossi arrivato in Bolivia.
A smorzare il mio entusiamo, quando mancavano pochi giorni d’autostop “al paese dei balocchi”, ci pensò il camionista boliviano,per intenderci uno degli esponenti della categoria dei camionisti “sport illustrated”,meglio conosciuti come i collezionisti di calendari ( http://persillo.blogspot.it/2013/05/un-viaggio-ascrocco-i-camionisti.html). Tra una mostra di seno e l’altra mi confidò che non era così comune trovare gente che usava coca per l’altezza,ormai le foglie di coca erano sostituite da anonime pillole.

Dopo tutto il parlare e il sentito dire, chiaramente la prima cosa che feci una volta arrivato in Bolivia fu : Uscire a cercare  cocaina(chiaramente le foglie). Dopo la nostra scellerata scelta di attraversare in camion il confine cileno-boliviano più remoto,ci trovavamo spersi ad Uyuni: la città,si fa per dire, del Salario più grande al mondo. Nonostante le mie priorità fossero le ferite enormi che avevo un po’ su tutto il corpo,dopo la caduta in bici(http://persillo.blogspot.it/2014/01/sacarse-la-chucha.html) decisi di affrontare le strade fanghose ,potenziali serbatoi di batteri, alla ricerca della coca.

Il primo mercato a cielo aperto boliviano mi lasciò a bocca aperta. L’esplosione di colori aveva come unica rivale , in termini di strabiliante e impattante, l’esplosione di sapori e measmi(molto più measmi). Le mosche banchettavano  sulle carni in mostra dai macellai, il sangue s’appiccicava al pavimento polveroso, il sole seccava i formaggi di capra esposti ed io ,allucinato dagli stimoli sensoriali, mi dimenticavo dell’unica cosa che mi aveva spinto a superare i dolori delle ferite e la stanchezza del viaggio: La cocaina.

Nonostante tutto era difficile dimenticarsi della cocaina. Enormi sacchi di 50 kili riempivano quà e là sgabuzzini stracolmi, dai quali facevano capolino le “Choline” boliviane. Le loro trecce inconfondibili erano insieme alle mani callose e ai denti consumati il distintivo della cocalera(contadina della coca).  La professione del cocalero è diffusissima in Bolivia,chiaramente il mercato che viene soddisfatto dalla enormi quantità è quello nero delle droghe e comunque tutto quello che viene pordotto viene esportato, quello che rimane in Bolivia è la coca da masticare, il toccasana contro il male d’altitudine. Così ,giusto per informazione, il sindacato dei cocaleros è diventato sempre più influente fino ad esprimere un proprio candidato presidenziale,in questo caso l’attuale Presidente Boliviano : Evo Morales.
 Insomma le floride montagne boliviane baciate dal sole tropicale e dissetate dalle piogge torrenziali sono l’habitat perfetto per la piantina di coca,che solo una volta raffinata diventa la celberrima cocaina.

Ritornado a noi,la coca viene venduta in pacchi di dimensioni diverse,anche all’ingorsso nei vari mercati. Quel giorno usciì dal mercato di Uyuni con 300 grammi di fogliame per meno di 1 euro. Le foglie di coca sono il compagno di viaggio ideale. Togliendo il pistillo le foglie sono pronte per essere accumulate nella bocca. Le tipiche bolas(palle) ,che gonfiano le guance del boliviano medio, sono la forma ideale per assumere a rilascio lento piccole quantità di principio attivo della coca. La quantità rilasciata equivale  a qualche tazzina di caffè. Le foglie di coca sono un ottimo anestetico,appena entrano a contatto con la lingua l’addormentano, riempiendo le papille gustative di un retogusto amarognolo,ma piacevole. Gli effetti collaterali sono :
  
inappetenza,che nel caso di molti boliviani è un bene,visto i loro salari ;

 nervosismo, se assunta in grandi quantità e magari accompagnato da alcolico,  e questo è un male per i Boliviani che hanno un tasso di consumo di alcolici alle stelle, ed è stato ancora peggio per me,che mi sono ritrovato più di una volta   assidui consumatori di coca e alcol a guidare i  bus in via di rottamazione tra tornanti vertiginosi, di notte.

Paz,amor y libertad!

martedì 21 gennaio 2014

Sacarse la Chucha



“Sacarse la Chucha” tradotto letteralmente dal Cileno all’Italiano avrebbe davvero poco senso. Suonerebbe tipo “togliere la cosa”. Chucha è l ‘equivalente del toscano “coso”. I Cileni parlano così velocemente  che ,a volte, gli si offusca il cervello e le parole mancano,l’unica soluzione alla momentanea apnea celebrale è inventarsi parole semplici e dargli significato a piacere, spesso questi neologismi casuali diventano di uso comune. Per chi volesse avventurarsi ai confini del mondo ,spingendorsi a ovest del nostro continente nella terra dei terremoti ,del rame e  di Vidal, è utile sapere che il forbito vocabolario cileno si arricchisce di parole multi-uso, fondamentali in momenti di difficoltà. Oltre alla “Chucha”, vi è  l’onnipresente “wea”, più o meno l’omologo, non esiste in nessun vocabolario spagnolo,ma in Cile è sulla bocca di tutti. Poi vengono i vari derivati, il più famoso è  “weon”, che detto in cagnesco è un appellativo offensivo,l’equivalente del nostro coglione, che all’occorenza,con il sorriso sulle labbra, si trasforma, come la “chucha”, in coso.

Tornando a noi: “Sacarse la chucha”. Questa è la tipica esperessione ,per avvicinarci meglio alla comprensione del significato,che i “guappi” dei quartieri cileni usano  per riassumere una rissa finita male: “Nos Sacaron la Chucha”. È la tipica espressione che i genitori stremati dai capricci del figlio ribelle usano come ultimo disperato appello per redimere il “figliol prodigo” , di solito suona  così: “te vamos a sacar la chucha”.

Nel viaggio sono stato spesso in situazioni limite, ho rischiato molte volte di “sacarme la chucha”, per questo controllavo attentamente ogni possibile segno di squilibrio dei camionisti che ci accoglievano, cercavo di arrivare sempre con la luce in tutti i nuovi posti,boschi ,spiagge etc, per controllare ogni minimo dettaglio,ogni possibile via di fuga in casi estremi; per questo sorridevo a tutti prima di aprire bocca; Insomma per questo sono diventato quasi un paranoico.

Certo immaginavo ,che primo o poi il mio turno di “sacarme la chucha” sarebbe arrivato,ma in tutte le mie premonizioni era sempre dopo uno scontro epico con bruti che cercavano di assaltare il mio accampamento e  i miei amici (insomma le tipiche premonizioni di serie-dipendenti, nello specifico “the walking Dead”). Invece l’appuntamento con il destino arrivò giusto un’anno fa,era una tipica giornata  calda e secca nel deserto dell’Atacama. Decidemmo di avventurarci alla scoperta delle magnifiche valli scavati da fiumi preistorici ,che cambiano colori ad ogni ora del giorno. IL rosso secco,passa ad un’arancione intenso, poi sfuma in un arancione pallido,viola,rosa. La “Valle de la luna” ,che molti complottisti ritengano essere stato il set americano per girare il film dell’allunaggio, al tramonto è una tinozza impazzita. I colori saltano da un angolo all’altro dell’orizzonte,si poggiano sulle vicine Ande e rimbalzano,trasportati dal vento, sulla terra secca e lì rimangono fino a lasciare il posto alla chiara oscurità delle notti di luna piena.

Eravamo arrivati a godere di questa meraviglia in bici,dopo una ventina di Km di sali e scendi piacevoli. Il panino che addentavamo fissando la festa di colori era il giusto premio alle nostre fatiche e la riserva di energia per il ritorno. S’era fatto tardi e dovevamo tornare di corsa a San Pedro dell’Atacama per restituire le biciclette. Mi sentivo Pantani, quindi decisi di smaltire il mio panino volando sui terreni sterrati e arrivando per primo a consegnare le biciclette e salvare il gruppo dalla sovratassa per l’affitto.  Ma si sa: la fretta è cattiva consigliera e poi le biciclette affittate  ai turisti a 4 euro per una giornata intera non hanno freni.

C’è da dire che sono caduto molte volte in bici,  tutte erano cadute molto ridicole, una volta andai a sbattere di muso su un segnale di stop. Se qualcuno dovesse passare per le zone basse di Tito può ancora osservare i cimeli: la macchia di sangue a metà dell’asta del segnale  che se ne stà ancora pendente. Ma tutte le volte ero solo. Questa volta invece ad assistere la scena c’erano nell’ordine: il custode donna del parco, il mio compagno di viaggio numero 1, coinvolto anche lui nella caduto, la mia bicicletta dopo  diverse capriole nell’aria ha preso la sua, il compagno di viaggio numero 2,che è passato a tutta birra al nostro fianco mentre ci dimenavamo a terra, e la mia ragazza,che era rimasta indietro a scattare le ultime foto, a lei dedicai lo spettacolo più tragico di tutta la caduta, che a 60 km all’ora offrì un’emozione degna delle migliori “ultimate fail compilation”: lo svenimento.

 A 2500 metri di altezza, nel deserto più arido del mondo  la mia caduta aveva proprio tutto:  la spettacolarità ,la tragedia il tutto contornato da incredibili giochi di luce. Dopo 10 minuti di show, io che subito dopo la botta,ancora tramortito e sanguinante provavo a camminare e cadevo, arrivò a completare il quadretto anche l’angelo custode dal pick-up rosso. Nonostante i 40 gradi sentivo un feddo pazzesco,il pick up correva il più possibile,arrivammo all’ospedaletto da campo giusto in tempo per perdere la seconda volta i sensi. La nostra storia di viaggi a scrocco e accampate aggratiss commosse l’infermiera, che dopo averci offerto una notte a prezzo speciale nel suo ostello, ci regalò le garze e tutto l’occorrente per medicare i tagli profondi sulle braccia,sulle gambe e sulla schiena. Il “Dulcis in fundo” fu l’ancora più generosa concessione. L’infermiera ci presentò il conto(intorno ai 20 euro) mi guardò impietosita e mi disse :” sicuro per fare sto viaggio non avete soldi,dovrei farvi pagare,ma…. Andate!”

Le cicatrici della caduta le porto come ricordo sulle mie braccia.Ma con orgoglio posso dire che da quel giorno ho  usato anch’io il fatidico “sacarme la Chuhca”.
Paz,amor y libertad!


venerdì 25 ottobre 2013

UN viaggio a scrocco: Pane e Acqua

Il turismo alternativo nel quale mi sono tuffato per 50 giorni, ovviamente oltre a viaggi low cost in camion giganti e lussuosissimi resort  di alberi e sterpaglie,  ai fianchi dei fiumi più limpidi del Cile  mi ha regalato esperienze ai limiti del normale,impagabili.

Impagabili appunto perché non c’è un prezzo da fissare ai tramonti mozzafiato , veri orgasmi a base di rosso,rosa,arancio, per i miei occhi  abituati , da un  po’ di tempo a questa parte, ai colori sintetici dello schermo del computer. Non si può fissare il prezzo all’ebbrezza dell’ ignoto offerto dallo spalancarsi della portiera  di un camion. Non si può fissare il prezzo al  dormire distesi a naso in sù, su  di un letto di sabbia umida, a 2 passi dalle scogliere dell’oceano a migliaia di km dalla luna piena, che sembra alla portata di dito(altro che touch screen e smartphone), sferzati dalla brezza “pacifica” dell’oceano più grande al mondo. Insomma,potrei continuare così  riempiendo almeno 3 pagine di liste degli spettacoli che hanno spinto i miei orizzonti emozionali sempre più in là,ma sarebbe masochista per me,che ormai ricordo il mio girovagare  ai “confini del mondo” come si ricordano le avventure amorose  estive il 15 ottobre. Insomma parafrasando e parodiando il celeberrimo spot : “per tutto il resto c’è Mastercard”.

Ma lontano dal mondo codificato delle banche ,la mia avventura è stata un continuo esperimento ai limiti della soglia di povertà fissata dall’Onu( 2 dollari al giorno,circa 1,50 euro). Ho cercato di raddoppiare la cifra e vedere cosa sarebbe successo. I risultati sono e saranno disvelati in queste pagine cibernetiche.        Essere un S. Franceso del terzo millennio,non ha dietro una  voglia di sciovinismo  e nessuna pretesa di illuminare il mondo malato di abbondanza. Dietro le nostre azioni e il nostro viaggio non c’è nessuna logica hippie e nessuna morale comunista, c’è stata solo la voglia di adattarci al mondo del viaggio on the road, lontano dalla modernità. L’individualismo delle metropoli tutte,anche quelle sudamericane, lascia il posto all’altruismo delle popolazioni “rurali” , che più o meno tutte ci hanno accettato come in una grande famiglia, multietnica, multilingue , multiculturale. In questa grande famiglia non  conta il taglio di capelli,il colore della pelle, insomma si capisce..

Vivere con 4-5 euro al giorno,per me non era una grande novità. Grazie al poco che resta dello stato sociale italiano : la borsa di studio, ho potuto pagarmi da solo gli studi e sopravvivere, lontano dai fasti delle feste universitarie stile Usa, che anche in Italia vanno per la maggiore. Ma poco importa. Ho sempre piacevolmente barattato l’emozione di sorseggiare un birra alla spina al bar  con la “peroni fresca” a casa con i 4 amici di sempre,  ho sempre glissato le caotiche discoteche romagnole ,  preferendo  ballare con il sottofondo della musica che voglio, fresca fresca da una playlist di youtube. Insomma mi piacciono le cose fatte in casa, in tutti i sensi. Questo non vuol dire che abbia vissuto recluso come i frati cappuccini, anch’io ho ripudiato l” ora et labora “ e lo ho  convertito nel miglior “studia e divertiti”. Ma viaggiare con 4-5  euro al giorno calcolando il mangiare,il bere e ,soprattutto in Bolivia, il dormire è diverso dalla statica vita da studente fuori-sede.

Per cercare di limitare le spese e di restare fermo sulla cifra media prefissata l’unica soluzione è portare con sé i “soldi contati”, ovviamente non tutti insieme  per evitare i  più che probabili furti.
Per questo motivo sullo sfondo del deserto dell’Atacama le nostre colazioni, pranzi e cene erano sempre a base di pane. Panini grandi ,medi e piccoli. Avevamo rinunciato  a tutte le piccolissime cose che riempiono la nostra routine, l’unico grande simbolo della normalità,lontana 12 mila km era il pane. Da buon “terrone” il pane per me rappresenta il cibo. Il fatto che 500 gr costassero un terzo di quanto potevamo spendere lo rendeva insostituibile. Il companatico variava dai pomodori all’ “avogado” , accompagnati dalla maionese ,l’unico indispensabile apporto dei buon vecchi grassi saturi.            Questo era più o meno il nostro menù fisso giornaliero che , a seconda dei prezzi, si arricchiva di gallette e cioccolato per l’indispensabile apporto di zuccheri. Mangiare poco, ma io direi il giusto è  riscoprire davvero  i sapori. Con l’acquolina in bocca dopo tutto un giorno di autostop, con il caldo che consuma le ultime energie, i 4 panini giornalieri  sanno a buono. I gusti dei pomodori da supermercato vengono sublimati dalla fame e la maionese all’improvviso si trasforma nella salsa speciale, la migliore della vita.

Andare avanti a pane e acqua ,camminare per km  è anche il metodo più efficace per smaltire i kili in eccesso. Lontano dai miracolosi spot americani per il dimagrimento , 23 giorni di Zig zag cileno mi sono costati 7 kili e ,per la prima volta dopo 2 anni, sono ritornato a vedere i miei addominali nascosti. Sentirsi in forma ,più leggeri e più forti nonostante i soliti 4 panini è lo sprone migliore per continuare a girovagare, se si aggiungono i paesaggi e le avventure, si capisce che passare 3-4 mesi così, è vivere in un limbo sospeso qualche metro da terra,lontano dalla pressante routine, che in questo caso è rappresentata dai 4-5 pasti giornalieri.

Dal limbo cileno,siamo poi ripiombati nell’inferno o meglio nell’ inverno della Bolivia. La Bolivia è piena di contraddizioni,la prima è quella di avere un inverno in estate, il famosissimo inverno boliviano. Se avessi viaggiato per l’Europa a febbraio sarei stato giustamente punito dal freddo,dalla pioggia,dal vento e,in alcuni casi, dalla neve. Ma febbraio nell’emisfero australe è il nostro agosto,l’afa e il caldo non avrebbero lasciato scampo a giovani girovaghi come noi  e, tutto sommato, fino a passare la frontiera lo scenario era quello: caldo pressante e cali di zucchero. Ma la Bolivia, per la sua posizione geografica, vive 2 stagioni uniche: secca e piovosa , che si sovrappongono alle nostre 4.
Essendo un Paese in via di sviluppo(seguendo la nomenclatura politically correct) , il costo della vita calza perfettamente , o quasi, con i salari da miseria dei contadini, operai e minatori, che costituiscono lo zoccolo duro della forza lavoro boliviana. I nostri 4-5 euro al giorno,per il cambio favorevole, valevano nell’ordine da 2 a 3 pasti completi, un letto dove dormire e qualche serata fredda,riscaldata dal dolcissimo liquore alla cocaina. In Bolivia è stata un’esperienza on the road,ma ai limiti dell’opulenza. Presi dalla sindrome dell’europeo ricco, sempre grazie al cambio, ci siamo anche presi il lusso di abbandonare l’autostop e affidarci alle “sicurissime”autolinee boliviane, il tutto sforando il nostro tetto di spesa giornaliero,ma comunque non oltrepassando i 5 euro.  Circoscrivendo l’opulenza all’ambito culinario, i 25 giorni boliviani sono stati il ritorno al cibo,molto spesso grasso della strada. Mi spiego. Salvo nelle grandissime città in Bolivia non esistono i supermercati, che In Cile sono stati la nostra salvezza con le offerte sui pomodori e il pane, quindi i beni di prima necessità da mangiare si comprano nei mercati,una babilonia che parla tutte le lingue autoctone boliviane, un caleidoscopio di colori,ma soprattutto una fucina di infezioni, molte intestinali,visto la scarsa attenzione all’igiene. E qui un inciso, i boliviani non sono sporchi per pigrizia, sono sporchi per cultura.
 Vivere più di venti giorni a “pane e acqua” e arrivare in Bolivia è un’esperienza “double faz” . Nei mercati si mangia tanto con pochissimo, quindi si può tranquillamente soddisfare la fame accumulata nei giorni precedenti. L’altro faccia  della medaglia è che  alla cucina boliviana manca la qualità necessaria per essere definita salutare. Per affrontare le condizioni climatiche e geografiche proibitive i boliviani mangiano pesantissimo. Zuppe a base di tutto e carne, sempre pollo, rigorosamente fritto, completano  il tutto spaghetti fritti e riso pallido.
La cosa positiva è che, vista la qualità del cibo, tutto quello che si mangia si elimina. I bagni pubblici boliviani, che da poco hanno preso piede in Bolivia, capita passeggiando per le strade vedere scritto sui muri : “vietato defecare qui”, sono lo scenario quotidiano  della guerra dei boliviani alla diarrea. La diarrea è un problema diffusissimo in Bolivia,tanto che gli spot nostrani importati dagli Usa pro-dimagrimento ,sono sostituiti dagli spot caserecci  di venditori di infusi contro la diarrea. Chiaramente non c’è nessuna televisione,ma solo centinaia di stand, dire stand è dare un’immagine più o meno verosimile,visto che si tratta di un lenzuolo disteso a terra. I venditori guadagnano più di un qualsiasi minatore,operaio e contadino, vendendo pezzi di legno che trasudano una resina giallastra ,che cotta è il miglior rimedio al cibo spazzatura. Le proprietà magiche di questa resina contribuiscono a ripulire l’intestino uccidendo la flora intestinale superstite in un bagno di diarrea. Della serie chiodo scaccia chiodo.
Dopo 23 giorni di Bolivia siamo ritornati in Cile passando per il Perù svuotati e felici più che mai di ritornare  a vivere a pane e acqua.


Paz,amor y libertad!

venerdì 4 ottobre 2013

Miti e leggende

Da sempre sono stato affascinato dai racconti popolari nel senso letterale del termine: racconti del popolo. Tanto che potevo rimanere per ore ad ascoltare i miei nonni raccontare di quando erano costretti a vivere in 6 in una casa di 40 metri quadri,che ,all’occorrenza, si trasformava in una locanda familiare. Pendevo letteralmente dalle labbra di mia nonna che mi raccontava di quando  nel “reparto lavanderia” del fiume si trovò ad annaspare tra le acque,dopo che il fido “ciuccio” le aveva rifilato a tradimento un  calcio allo stomaco. Mi piaceva così tanto essere trasportato lontano nel tempo seguendo i racconti dei miei nonni che passavo tranquillamente delle ore ascoltandoli parlare quando si incontravano con i loro coetanei. Seguivo ipnotizzato dal dialetto i loro flashback.

Partendo per il Sudamerica non mi aspettavo certo di passare freddi pomeriggi intorno ad una tazza di caffè fumante  e ascoltare in uno spagnolo incomprensibile i racconti dei corrispettivi dei miei nonni sudamericani. Non avrei sicuramente girato con un taccuino a scovare storie sensazionali nelle quali perdermi. Ma nonostante il mio scarso impegno, ho comunque avuto quello che cercavo: storie. Storie fantastiche, storie ai limiti del reale, storie chiaramente bufale e leggende.

Nella top five entrano di diritto le 6 ore trascorse con il camionista “cazzaro”(vi rimando al post sui camionisti)http://persillo.blogspot.it/2013/05/un-viaggio-ascrocco-i-camionisti.html . Le sue 6 ore di monologo interrotte per fare pipì e per scherzare alla radiotrasmittente con il fratello camionista, che lo seguiva a  distanza di sicurezza, furono un vero delirio narrativo. Le sue storie personali si intrecciavano con strane teorie sulle cose del mondo e con predizioni alla  “Mago Otelma”.  Tralasciando il personale  , nei suoi racconti il tipo appariva come un  mix tra Pablo Escobar e il “Che”, il camionista “cazzaro” ci ha offerto anche una storia più popolare: La rivisitazione cilena della fine del mondo Maya. Complice l’elezione del Papa e il meteorite caduto in Siberia, che tenevano banco sui giornali di tutto il mondo in quei giorni, il camionista cazzaro sfoderò una leggenda di “spielberghiana memoria”. Secondo le voci dei suoi amici, rafforzate  dalla lettura della bibbia nera, Il simpatico “cazzaro” ci raccontò la leggenda del Papa nero. La storia era una fusione tra le teorie maya e le predizioni di Nostradamus. Secondo i pre-colombiani , il francese ed il camionista di lì a qualche giorno sarebbe stato eletto  un Papa nero che avrebbe significato la fine dell’era della pace. Sarebbe scoppiata una guerra che avrebbe fatto una cernita dei meritevoli di godere del regno dei cieli e alla fine sarebbero arrivati i cavalieri dell’apocalisse. Insomma se la proprietà intellettuale fosse esistita 3000 anni fa il nostro “cazzaro” avrebbe ricevuto querele per violazione del copyright nell’ordine da S. Giovanni, I Maya e Nostradamus.

Dovemmo arrivare in Bolivia per venire a conoscenza di una delle storie più sconvolgenti del Cile. Come tutti i paesi “esotici” il Cile doveva pur conservare nella sua memoria una storia di Ufo. Dopo tanto girovagare la fortuna ci aiutò. Dopo il viaggio in autobus più pericoloso della nostra vita arrivammo a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, a due passi dalla foresta Amazzonica. A spalancarci la porta della sua enorme casa fu un giovane rasta man  musicista cileno, che era scappato dal “tremolante” Cile  per tuffarsi nel caldo afoso dell’Amazzonia boliviana. I convenevoli durarono pochi minuti,giusto il tempo di lamentarci dal caldo insopportabile. Ci spostammo nell’unica stanza con il ventilatore e il tipo cominciò la sua narrazione. Per riprendere la credibilità, perduta dopo averci detto di essere “Vegano”, ci confidò che il padre  era un impiegato della Nasa. Breve inciso : per la sua aridità che diminuisce le deformazioni visive dovute all’umidità, il deserto dell’Atacama ,ma in generale tutto il nord del Cile , è la zona migliore per impiantare sensibilissimi telescopi.(vedi progetto ARPAS, sigla in Spagnolo). Una volta finite le spiegazioni tecniche il rasta man arrivò finalmente al punto: pare che anche il Cile visse  la sua Roswell.  Il misfatto avvenne nel 1997 a pochi km dalla Serena, nel Valle dell’ elqui,il tempio  del Pisco, forse questo ha influenzato le narrazioni sensazionalistiche. Per intenderci la casa de Pelo(http://persillo.blogspot.it/2013_06_01_archive.html). L’accaduto ovviamente passò sotto silenzio in tutto il Cile,non ne parlò nessun notiziario e come tutte le storie di Ufo e di x Files, secondo l’informatissimo amico Vegano, arrivarono gli Americani. Per qualche settimana la zona dell’impatto venne chiusa a tutti e l’Fbi o chi per lei cominciò un giro nelle case dei 3-4 paesi della zona. Un porta a porta particolare a base di minacce. Così l’episodio che ebbe un numero elevatissimo di testimoni  che avrebbe potuto sconvolgere l’opinione pubblica, rimase un mistero per i pochi eletti lavoratori della Nasa del nord del Cile, per i loro figli e per voi che in questo momento affrontate la lettura.

Per averlo attraversato per metà davvero "on the road" e per essere rimasti la maggior parte del tempo al contatto con la popolazione autoctona, il Cile è stato per noi una fucina di racconti e storie. Chiaramente il Nord del Cile che ospita maree di miniere , tra le più grandi e redditizie del mondo , si presta a storie di complotti  internazionali. Ma la storia miniera che più ci ha sorpreso per la foga con la quale ci è stata raccontata e per le implicazioni nella realtà se se ne accertasse la veridicità è quella sul metallo pregiatissimo : Il Magdano.

Queste le montagne piene del Magdano
Come al solito era mezzogiorno e il sole picchiava forte,anche perché ormai il deserto vero e proprio era a qualche km di distanza , l’aria arida ci bruciava la pelle e ci toglieva le forze, quando vedemmo arrivare un’ auto, che senza esitazioni si fermò e ci raccolse. Il viaggio durò  il tempo necessario per avere un’altra  sconvolgente rivelazione cilena. Il tipo che ci ospitò nella sua auto di servizio era un Cileno di origine araba, come me aveva studiato scienze politiche ,  mi guardò fitto negli occhi e in maniera più che sarcastica mi disse: “hai fatto un’ottima scelta, Vedi me ho studiato scienze politiche e adesso lavoro in miniera!”. Per spezzare una lancia in favore delle scienze politiche c’è da dire che  il tipo non  era un semplice minatore, si occupava infatti delle relazioni esterne di una delle millemila miniere, insomma soldoni. Dopo la frecciata, cominciò la sua dissertazione sui metalli che arricchiscono il Cile, o meglio le multinazionali che comprano le concessioni per scavare dal governo cileno. Chiaramente ci parlò del rame. Ma ci stupì quando tirò fuori il Magdano. A distanza di mesi ancora non riesco a capire se suddetto metallo esista davvero , ma fatto sta che il tipo fu più che convincente. Come  Il re leone con Simba nella celeberrima scena, aprì le sue braccia e indicò le collinette aride che  ci circondavano. :”Vedete queste? Non sono montagne di terra,ma di soldi,tantissimi soldi!! Lì sotto c’è un mare di Magdano : il metallo del futuro”. Scendemmo troppo presto dalla sua auto per controbattere alle sue parole. Il Tempo ci dirà se si trattava di una leggenda, di una gigantesca cazzata o di un’enorme rivelazione. In ogni caso, sono più che sicuro che il governo cileno farà del suo meglio per trarre dalla situazione il minimo beneficio possibile per la popolazione,continuando a svendersi al miglior acquirente.

uno dei "Diablos"
La quarta storia è la tipica leggenda popolare che accompagna i bambini nella loro infanzia,i giovani nella loro intraprendenza e i vecchi nelle tombe. Leggende figlie di tradizioni secolari che non cancellarono nemmeno gli invasori spagnoli,ma che dimostrano a differenza, come le culture andine seppero trarre il meglio dalle peggiori situazioni. Naturalmente la location della leggenda è la Bolivia depredata , alla continua ricerca della sua identità, alle prese con la povertà,la mal nutrizione e le continue pressioni degli “invasori moderni”. L’occasione è il carnevale boliviano,che fosse per gli autoctoni durerebbe tutto l’anno,ma che le autorità hanno ingabbiato nel mese di febbraio. Oruro è una delle città più grandi della Bolivia ed ospita ogni anno il secondo carnevale per grandezza del Sudamerica. Alla samba di Rio i boliviani preferiscono la “cumbia villera”,anche perché l’immensa spiaggia di Copacabana è un sogno a 3500 metri nel cuore delle Ande ,bagnati dall’incessante pioggia dell’inverno boliviano. Le celebrazioni finali oltre a fiumi di alcol offrono  3 giorni consecutivi di sfilate in costume, che sono autentiche rivisitazioni delle leggende tramandate a voce per secoli. La sfilata più famosa è la “Diablada”(la diavolata). Migliaia di persone ballano indossando sgargianti e terrificanti costumi da diavolo a ritmo  degli strumenti di centinaia di bande musicali. Nello stesso giorno tutte le botteghe bruciano incenso e delle strane “saponette” (i desideri) come offerta alla Pachamama( madre terra). La leggenda racconta che durante il periodo del carnevale le viscere della terra si aprono, da queste che normalmente ricacciano oro e argento, escono i demoni ,appunto “los diablos” , ed entrano i fumi della combustione dell’incenso e delle “saponette” che arrivano direttamente al cuore pulsante della madre terra. Fin qui la parte indigena della storia. Grazie all’intervento degli Spagnoli i diavoli,che nella tradizione originaria  dopo 3 giorni di baldoria ritornavano da soli nella terra, adesso ritornano cacciati dalla “Virgen del Socabon”, alla quale viene dedicato interamente il carnevale di Oruro.

L’ultima storia è quella di una leggenda vivente in Cile : l’eremita del km 1265 della Panamericana (contando Santiago come punto 0). Tra i camionisti il fantastico eremita  è più famoso di Maradona tra i calciofili  . Il deserto dell’Atacama ha 2 simboli che ne riassumono la sua essenza, ovviamente oltre alle miniere, la mano del Deserto(monumento che unisce il Sudamerica) e l’eremita. Viaggiavamo ormai da giorni e di lui nemmeno l’ombra, più passava il tempo e più si avvicinava il km fatidico e più aumentava la nostra curiosità. Dovemmo aspettare il ritorno,forse il momento giusto, “il dulcis in fundo” al nostro viaggio. Infatti all’andata mi persi la casetta bianca a forma di igloo( fatta di sterco umano e fango), che passò inosservata per l’arancione monotono del pieno deserto e  per l’autista che ci accompagnava che  era uno dei denigratori dell’eremita, un miscredente che non era interessato a mostrarmi la grande attrattiva dell’Atacama. L’eremita è una vero Messia tra i camionisti, l’Unto dal Signore dei deserti, per portare un messaggio di speranza a tutti. La speranza fondamentalmente di riuscire a vivere nonostante il dramma di essere l’unico superstite dell’incidente automobilistico che sterminò anni orsono la sua famiglia proprio al km 1265 e rimanere nel deserto senza impazzire più di tanto. Certo i racconti dei pochi eletti che hanno attaccato bottone con lui sono dei ritratti di geniale pazzia,ma nonostante tutto sostenibile in un deserto sterminato ,che di notte è scena di apparizione di bambini scomparsi e alieni. L’eremita racconta  a pochi intimi il suo incontro con i Venusiani e la sua ambizione più grande: costruire un’intera cittadina con fango e cacca umana essiccata, su modello del suo igloo. Per fortuna noi incontrammo uno di questi “amici” che ci confessò le passioni dell’eremita. Una caratteristica dell’uomo del deserto è la forte ossessione per il sesso femminile. Di solito i camionisti vanno in pellegrinaggio da lui offrendogli cibo, acqua e soldi .E’ però  categoricamente vietato offrigli cibo  “femmina” cioè con nome femminile  perché lui la rifiuta scocciato. Il nostro incontro avvenne grazie al camionista filantropo(link),le nostre scorte di cibo erano quanto mai  limitate. Era quasi la fine del nostro viaggio e per questo motivo non avevamo tempo di fermarci nei nostri soliti supermercati a rifornirci, quello che avevamo era l’eredità della buona volontà della coppia che ci ospitò ad Antofagasta. Oltre ad un coltello per la difesa personale,ci avevano regalato un pacco di pancarré e una piccola ciambella. Nonostante la nostra buona volontà non avevamo niente da offrigli.  Il filantropo già aveva concordato con l’eremita,che nel frattempo era apparso dal fresco del suo igloo, un incontro in cambio della nostra elemosina. Il camionista gli offrì qualche moneta, un po’ di acqua e poi ci guardò. Noi facevamo gli gnorri,mancavano ancora 1500 km alla fine del viaggio e il nostro peregrinare  poteva durare 1 giorno,ma anche una settimana , e nel nostro ruolino di marcia non avevamo inserito nessuna città,per non perdere tempo.  Il camionista ci guardò di nuovo,stavolta scocciato : “e voi che gli date?? DAI PRENDETE UN PO’ DI PANE!!” Ci convincemmo a sacrificare una metà del nostro pane, ma per l’incontro con il mito eravamo disposti anche a toglierci, letteralmente il pane di bocca.  Noi eravamo distrutti ,sporchi e visibilmente consumati. Il peso di 50 giorni di viaggio afflosciava le nostre pose, quando apparve il “mito” rimanemmo letteralmente stupefatti. Contrariamente alle nostre aspettative apparve un uomo di mezza età scuro. Sarà stato della mia stessa altezza. I capelli lunghi e la barba alla “Cast away” gli coprivano i tratti del viso, I capelli e la barba facevano di lui un eremita,perché per il resto era un comune mortale. Indossava con nonchalance una maglietta bianca “i love Ny”  immacolata e un pantalone da avventuriero con tasche dappertutto e perfino le scarpe sembravano appena comprate. Insomma non proprio un abbigliamento da abitante del deserto. Tra noi e lui, era lui il turista della situazione. Si avvicinò,noi ci aspettavamo una Benedizione da autentico “Messia del Deserto” e invece le uniche parole che uscirono dalla sua bocca furono : “ ma il pane è fresco?” . Ritornammo sul camion con le nostre scorte decimate consapevoli di aver riempito la pancia a un burbero. Era il giusto prezzo da pagare per incontrare un mito vivente.




Paz,amor y libertad!




lunedì 9 settembre 2013

Le origini: Tito.

LE ORIGINI : Tito


 Ogni viaggio ha sempre un inizio ed una fine. La banalità di questa frase è direttamente proporzionale alla realtà delle cose. Quello che 9 mesi fa mi sembrava un autentico salto nel vuoto oggi può essere definito come  il salto mortale più  spettacolare della mia vita.  Come tutti i tuffatori, dopo un tuffo da 10, sono rimasto piacevolmente scioccato  a fissare la mia opera d’arte,mentre tutto intorno a me scivolava.
Così mentre il mio cervello rimaneva fisso nelle imprese memorabili di 9 mesi della mia vita,  il tempo scorreva inesorabile e mi rimandava  alla mia realtà : Tito.

Tito è la  mia Itaca, solo che a differenza di Ulisse non ci sono sirene,  ciclopi , tempeste e maghe a  interporsi tra me e  il  ritorno. I miei mostri sono  le immagini che la mia coscienza proietta nella mia mente, consapevole  appunto della realtà in cui la mia Itaca riposa.
Da tempo avrei voluto scrivere delle mie origini, delle mie radici,  di Tito. Ma solo ora, che la distanza ha assottigliato i lazzi che mi legano al mio passato, ho la lucidità e la voglia di ripercorrere il mio paese e di raccontarlo.

 Ritornare d’estate a Tito mi permette di godere della bellezza del camminare , rinfrescato dalla brezza estiva, in viuzzole troppo anguste per la modernità delle automobili,ma che sono l’habitat ideale per una delle più singolari specie della fauna autoctona la “donna comare”. Questa meraviglia della natura si alimenta di pettegolezzi e vive in ambienti piccoli e chiusi. Questi  esempi di perfezione di biologia umana, molto spesso di piccole dimensioni, sono riconoscibili a distanza per i  versi che emettono. Recitano pettegolezzi a mo’ di rosario, tra di loro l’italiano perde il suo ritmo melodico e si trasforma in una serie di codici criptati. Dall’unione di questi codici  con la velocità  nel pronunciarli e il volume della voce nel farlo(decisamente basso) nasce il  brusio caratteristico di questi esseri. “Le donne comari” vivono in gruppi grandi,quasi in simbiosi con  le appartenenti al gruppo, non c’è pettegolezzo che passa in sordina,tutto, ma proprio tutto viene setacciato dalle lunghe e affilate lingue. Sono le orecchie e l’occhio grande del paese. Non sanno cosa sia l’omertà, tutto quello che scoprono lo rivelano, sono le paladine della libera informazione. D’estate si dedicano alla loro attività all’aperto, occupano i luoghi simbolo del paesino. Le generazioni più antiche di questa specie occupano il centro storico. L’italiano ,in questo ceppo , lascia il posto al titese arcaico , le radici dei loro modismi sono ancora fonte di ricerca di dialettologi di mezzo mondo. Il centro storico, in estate, diventata un labirinto impenetrabile. I più temerari, come Ulisse con le sirene , percorrono i km pavimentati a pietre del centro storico e l’asfalto rovinato del Borgo San Donato con il petto all’infuori e le orecchie ben aperte. Pochi, però resistono ai versi delle “Comari”. E’ comune cadere nelle mille tentazioni offerte,la più pericolosa: un invito a prendere il caffè. E’ capitato più di una volta che qualche temerario non abbia resistito e ,sfiancato dal richiamo del pettegolezzo, sia caduto vittima delle comari
.
Il corrispettivo maschile  della “donna comare” è l “homo seggio”. A differenza delle comare l’ “Homo seggio”, dopo una vita passata a  lavorare le campagne ormai sterili e abbandonate, decide di passare la sua terza età occupando vita natural durante la monumentale fontana di Piazza del Seggio e le annesse scalinate. L’homo seggio svolge prevalentemente il lavoro sporco di controllo degli accessi alla zona “mondana” del paese, la zona del passeggio, insomma la movida. L’homo seggio è il check in di Tito,non c’è targa che non riconosca. Sa con precisione il numero  esatto di “Punto” rimaste in circolazione. Il suo lavoro noioso è un contributo fondamentale per alimentare le storie delle comari. Infatti, spesso, la compagna di vita dell’”homo seggio” è la “donna comare”, da questo incrocio perfetto nasce l’ideal tipo di titese.

Le generazioni successive di titesi sono più aperte alla modernità e sfruttano tutte le opzioni che gli offre la globalizzazione 2.0 per emanciparsi dal vecchio pettegolezzo e rifondarlo. I giovani hanno lasciato il centro storico e la piazza al controllo delle vecchie generazioni occupando il chilometro e mezzo della vecchia strada statale,che collegava Tito  a Satriano. L’attività preferita è il passeggio. La strada statale e  le “villette” adiacenti sono il micro mondo titese, l’apertura al cambio e alle nuove tendenze. Si osservano quasi  tutte le subculture urbane, che a Tito attecchiscono a forza, nutrendosi del normale malcontento giovanile  e della disillusione frutto di una situazione generale immobile , che segna ,ha segnato e segnerà la storia del Popolo Lucano.

Nelle fresche notti estive convivono comitive di pre adolescenti alla moda, con l’ultimo modello di I-phone, con le comitive di rocchettari, con le loro magliette da concerto. Qualche emo,che per sbaglio si trova percorrere il “miglio grigio” del passeggio titese colora di nero le strade. Quà e là  le rime dei rapper nostrani ,altoparlanti del disagio .L’esplosione di colori si completa  con le gamme eccentriche degli aspiranti calciatori e “tronisti” ,immancabili anche a Tito. Il tutto accompagnato con il ronzio  dei “cinquantini" modificati, cadenzati dai bassi dei “venditori di candeggina” di una volta, che passano le notti sui loro macchinoni-discoteca modificati , sfoggiando i loro subwoofer.

La vita brulica d’estate per le vie cittadine e sonnecchia d’inverno. L’orologio scandisce gli stessi ritmi di 50 anni fa,eredità della saggia cultura contadina ,la fortuna di Tito che fu. Le giornate cominciano e finiscono seguendo il percorso nel cielo del sole. Ma dietro le pietre del centro storico, gli orti della zona bassa, i palazzoni della zona nuova, cova il malcontento, frutto di anni vissuti al di sopra delle nostre  possibilità.
A 13 mila km da casa, quando ascoltavo le lamentele dei boliviani ,illusi e derubati delle loro ricchezze 500 anni orsono dai primi esploratori ed oggi dai nipoti dei colonizzatori con accenti stranieri, non mi sentivo poi così stranito. I boliviani rivendicano le loro radici, strappate a forza dal “bianco invasore”,consapevoli che per vivere il mondo moderno bisogna correre,ma incuranti delle competizioni,baratterebbero tranquillamente le connessioni wi fi  con il pezzo di terra che gli permetterebbe  di vivere con poco,ma felici.

Anni di promesse di politici corrotti ,che con la mano sinistra rubavano il pane ai contadini e con la destra  ne distribuivano le briciole, illudendo il popolo contadino che la rivoluzione industriale anche qui,tra i boschi e i fiumi gli  avrebbe permesso di raggiungere il progresso e vivere meglio, hanno paralizzato il paesello,cavalcando i fasti dell’era dell’opulenza tra gli anni '80 e '90.  Si costruirono fabbriche , si tagliarono i boschi. Oggi le fabbriche anche a Tito sono quasi tutte chiuse.  Gli alberi non crescono più e quello che 15 anni fa era destinato ad essere uno dei poli industriali migliori del centro sud italiano è un cimitero di enormi capannoni. Le fosse dei gessi utilizzati dalla chimera del siderurgico devastano il territorio e ammazzano la  gente.

Le viuzze del paese nelle sere estive continuano a brulicare di gente ed alimentare  le contraddizioni. Un paese che invecchia e si spopola precocemente. Questo è Tito.
La mia decisione di andare via ,allungare le radici fino  a rischiare di romperle completamente, è stata una scelta sofferta ma obbligata.  Tito per me è rimasto il paesino dall ’atmosfera ovattata degli anni della mia infanzia, il tipico paesino lucano, in cui  il calore del sole, che illumina la nostra vallata ,viene aumentato dal calore della gente. Tutti ti conoscono ,tutti si conoscono ,come in una grande famiglia. I battibecchi sono all’ordine del giorno,ma regna sempre la pace. Porto Tito nel cuore come i soldati al fronte portavano le immagini scolorite delle loro famiglie.
La posizione geografica di Tito, protetto a nord, sud, ovest e est da verdi montagne  è perfetta per far attecchire profonde radici, che si alimentano di tradizione e aria pura.  L’orizzonte sconfinato dei deserti sudamericani o della pianure del nord Italia a Tito si accomoda oltre le montagne, meno sconfinato. Tutti noi titesi cresciamo  impossibilitati a guardare oltre ,ma non importa, perché  la famiglia, il vero punto fisso delle 7 mila anime che popolano questa verde manciata di km quadrati, è il nostro nord. L’unica salvezza di queste terre martoriate è il tessuto familiare che ha resistito a stento ai continui sussulti di modernità.
Tornare a Tito è un tuffo nella contraddizioni. Un boccata di aria fresca tra le coccole della famiglia e le piccole tradizioni,che ancora resistono al tempo, che dopo un po’ diventa aria irrespirabile claustrofobica, desolante.

Me ne vado con la speranza di tornare con la forza di cambiare le cose, affinché l’immagine sbiadita riacquisti i suoi colori originali.

Paz,amor y libertad!