LE ORIGINI :
Tito
Ogni viaggio ha sempre un inizio ed una fine.
La banalità di questa frase è direttamente proporzionale alla realtà delle
cose. Quello che 9 mesi fa mi sembrava un autentico salto nel vuoto oggi può
essere definito come il salto mortale
più spettacolare della mia vita. Come tutti i tuffatori, dopo un tuffo da 10,
sono rimasto piacevolmente scioccato a
fissare la mia opera d’arte,mentre tutto intorno a me scivolava.
Così mentre
il mio cervello rimaneva fisso nelle imprese memorabili di 9 mesi della mia
vita, il tempo scorreva inesorabile e mi
rimandava alla mia realtà : Tito.
Tito è
la mia Itaca, solo che a differenza di Ulisse
non ci sono sirene, ciclopi , tempeste e
maghe a interporsi tra me e il ritorno. I miei mostri sono le immagini che la mia coscienza proietta
nella mia mente, consapevole appunto
della realtà in cui la mia Itaca riposa.
Da tempo
avrei voluto scrivere delle mie origini, delle mie radici, di Tito. Ma solo ora, che la distanza ha
assottigliato i lazzi che mi legano al mio passato, ho la lucidità e la voglia
di ripercorrere il mio paese e di raccontarlo.
Ritornare d’estate a Tito mi permette di
godere della bellezza del camminare , rinfrescato dalla brezza estiva, in
viuzzole troppo anguste per la modernità delle automobili,ma che sono l’habitat
ideale per una delle più singolari specie della fauna autoctona la “donna comare”.
Questa meraviglia della natura si alimenta di pettegolezzi e vive in ambienti
piccoli e chiusi. Questi esempi di
perfezione di biologia umana, molto spesso di piccole dimensioni, sono
riconoscibili a distanza per i versi che
emettono. Recitano pettegolezzi a mo’ di rosario, tra di loro l’italiano perde
il suo ritmo melodico e si trasforma in una serie di codici criptati.
Dall’unione di questi codici con la
velocità nel pronunciarli e il volume
della voce nel farlo(decisamente basso) nasce il brusio caratteristico di questi esseri. “Le
donne comari” vivono in gruppi grandi,quasi in simbiosi con le appartenenti al gruppo, non c’è
pettegolezzo che passa in sordina,tutto, ma proprio tutto viene setacciato
dalle lunghe e affilate lingue. Sono le orecchie e l’occhio grande del paese.
Non sanno cosa sia l’omertà, tutto quello che scoprono lo rivelano, sono le
paladine della libera informazione. D’estate si dedicano alla loro attività
all’aperto, occupano i luoghi simbolo del paesino. Le generazioni più antiche
di questa specie occupano il centro storico. L’italiano ,in questo ceppo ,
lascia il posto al titese arcaico , le radici dei loro modismi sono ancora
fonte di ricerca di dialettologi di mezzo mondo. Il centro storico, in estate,
diventata un labirinto impenetrabile. I più temerari, come Ulisse con le sirene
, percorrono i km pavimentati a pietre del centro storico e l’asfalto rovinato
del Borgo San Donato con il petto all’infuori e le orecchie ben aperte. Pochi,
però resistono ai versi delle “Comari”. E’ comune cadere nelle mille tentazioni
offerte,la più pericolosa: un invito a prendere il caffè. E’ capitato più di
una volta che qualche temerario non abbia resistito e ,sfiancato dal richiamo
del pettegolezzo, sia caduto vittima delle comari
.

Le
generazioni successive di titesi sono più aperte alla modernità e sfruttano
tutte le opzioni che gli offre la globalizzazione 2.0 per emanciparsi dal
vecchio pettegolezzo e rifondarlo. I giovani hanno lasciato il centro storico e
la piazza al controllo delle vecchie generazioni occupando il chilometro e
mezzo della vecchia strada statale,che collegava Tito a Satriano. L’attività preferita è il passeggio.
La strada statale e le “villette”
adiacenti sono il micro mondo titese, l’apertura al cambio e alle nuove
tendenze. Si osservano quasi tutte le
subculture urbane, che a Tito attecchiscono a forza, nutrendosi del normale
malcontento giovanile e della
disillusione frutto di una situazione generale immobile , che segna ,ha segnato
e segnerà la storia del Popolo Lucano.
Nelle
fresche notti estive convivono comitive di pre adolescenti alla moda, con
l’ultimo modello di I-phone, con le comitive di rocchettari, con le loro
magliette da concerto. Qualche emo,che per sbaglio si trova percorrere il
“miglio grigio” del passeggio titese colora di nero le strade. Quà e là le rime
dei rapper nostrani ,altoparlanti del disagio .L’esplosione di colori si
completa con le gamme eccentriche degli
aspiranti calciatori e “tronisti” ,immancabili anche a Tito. Il tutto
accompagnato con il ronzio dei
“cinquantini" modificati, cadenzati dai bassi dei “venditori di candeggina” di
una volta, che passano le notti sui loro macchinoni-discoteca modificati ,
sfoggiando i loro subwoofer.
La vita
brulica d’estate per le vie cittadine e sonnecchia d’inverno. L’orologio
scandisce gli stessi ritmi di 50 anni fa,eredità della saggia cultura contadina
,la fortuna di Tito che fu. Le giornate cominciano e finiscono seguendo il
percorso nel cielo del sole. Ma dietro le pietre del centro storico, gli orti
della zona bassa, i palazzoni della zona nuova, cova il malcontento, frutto di
anni vissuti al di sopra delle nostre
possibilità.
A 13 mila km
da casa, quando ascoltavo le lamentele dei boliviani ,illusi e derubati delle
loro ricchezze 500 anni orsono dai primi esploratori ed oggi dai nipoti dei
colonizzatori con accenti stranieri, non mi sentivo poi così stranito. I
boliviani rivendicano le loro radici, strappate a forza dal “bianco
invasore”,consapevoli che per vivere il mondo moderno bisogna correre,ma
incuranti delle competizioni,baratterebbero tranquillamente le connessioni wi
fi con il pezzo di terra che gli
permetterebbe di vivere con poco,ma
felici.
Anni di
promesse di politici corrotti ,che con la mano sinistra rubavano il pane ai
contadini e con la destra ne distribuivano
le briciole, illudendo il popolo contadino che la rivoluzione industriale anche
qui,tra i boschi e i fiumi gli avrebbe
permesso di raggiungere il progresso e vivere meglio, hanno paralizzato il
paesello,cavalcando i fasti dell’era dell’opulenza tra gli anni '80 e '90. Si costruirono fabbriche , si tagliarono i
boschi. Oggi le fabbriche anche a Tito sono quasi tutte chiuse. Gli alberi non crescono più e quello che 15
anni fa era destinato ad essere uno dei poli industriali migliori del centro
sud italiano è un cimitero di enormi capannoni. Le fosse dei gessi utilizzati
dalla chimera del siderurgico devastano il territorio e ammazzano la gente.
Le viuzze
del paese nelle sere estive continuano a brulicare di gente ed alimentare le contraddizioni. Un paese che invecchia e si
spopola precocemente. Questo è Tito.
La mia
decisione di andare via ,allungare le radici fino a rischiare di romperle completamente, è
stata una scelta sofferta ma obbligata.
Tito per me è rimasto il paesino dall ’atmosfera ovattata degli anni
della mia infanzia, il tipico paesino lucano, in cui il calore del sole, che illumina la nostra
vallata ,viene aumentato dal calore della gente. Tutti ti conoscono ,tutti si
conoscono ,come in una grande famiglia. I battibecchi sono all’ordine del
giorno,ma regna sempre la pace. Porto Tito nel cuore come i soldati al fronte
portavano le immagini scolorite delle loro famiglie.
La posizione
geografica di Tito, protetto a nord, sud, ovest e est da verdi montagne è perfetta per far attecchire profonde
radici, che si alimentano di tradizione e aria pura. L’orizzonte sconfinato dei deserti
sudamericani o della pianure del nord Italia a Tito si accomoda oltre le
montagne, meno sconfinato. Tutti noi titesi cresciamo impossibilitati a guardare oltre ,ma non
importa, perché la famiglia, il vero
punto fisso delle 7 mila anime che popolano questa verde manciata di km
quadrati, è il nostro nord. L’unica salvezza di queste terre martoriate è il
tessuto familiare che ha resistito a stento ai continui sussulti di modernità.
Tornare a
Tito è un tuffo nella contraddizioni. Un boccata di aria fresca tra le coccole
della famiglia e le piccole tradizioni,che ancora resistono al tempo, che dopo
un po’ diventa aria irrespirabile claustrofobica, desolante.
Me ne vado
con la speranza di tornare con la forza di cambiare le cose, affinché
l’immagine sbiadita riacquisti i suoi colori originali.
Paz,amor y
libertad!
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