“Sacarse la
Chucha” tradotto letteralmente dal Cileno all’Italiano avrebbe davvero poco
senso. Suonerebbe tipo “togliere la cosa”. Chucha è l ‘equivalente del toscano
“coso”. I Cileni parlano così velocemente
che ,a volte, gli si offusca il cervello
e le parole mancano,l’unica soluzione alla momentanea apnea celebrale è
inventarsi parole semplici e dargli significato a piacere, spesso questi
neologismi casuali diventano di uso comune. Per chi volesse avventurarsi ai
confini del mondo ,spingendorsi a ovest del nostro continente nella terra dei
terremoti ,del rame e di Vidal, è utile
sapere che il forbito vocabolario cileno si arricchisce di parole multi-uso,
fondamentali in momenti di difficoltà. Oltre alla “Chucha”, vi è l’onnipresente “wea”, più o meno l’omologo,
non esiste in nessun vocabolario spagnolo,ma in Cile è sulla bocca di tutti.
Poi vengono i vari derivati, il più famoso è
“weon”, che detto in cagnesco è un appellativo offensivo,l’equivalente
del nostro coglione, che all’occorenza,con il sorriso sulle labbra, si
trasforma, come la “chucha”, in coso.
Tornando a
noi: “Sacarse la chucha”. Questa è la tipica esperessione ,per avvicinarci
meglio alla comprensione del significato,che i “guappi” dei quartieri cileni
usano per riassumere una rissa finita
male: “Nos Sacaron la Chucha”. È la tipica espressione che i genitori stremati
dai capricci del figlio ribelle usano come ultimo disperato appello per
redimere il “figliol prodigo” , di solito suona
così: “te vamos a sacar la chucha”.
Nel viaggio
sono stato spesso in situazioni limite, ho rischiato molte volte di “sacarme la
chucha”, per questo controllavo attentamente ogni possibile segno di squilibrio
dei camionisti che ci accoglievano, cercavo di arrivare sempre con la luce in
tutti i nuovi posti,boschi ,spiagge etc, per controllare ogni minimo
dettaglio,ogni possibile via di fuga in casi estremi; per questo sorridevo a
tutti prima di aprire bocca; Insomma per questo sono diventato quasi un
paranoico.
Eravamo
arrivati a godere di questa meraviglia in bici,dopo una ventina di Km di sali e
scendi piacevoli. Il panino che addentavamo fissando la festa di colori era il
giusto premio alle nostre fatiche e la riserva di energia per il ritorno. S’era
fatto tardi e dovevamo tornare di corsa a San Pedro dell’Atacama per restituire
le biciclette. Mi sentivo Pantani, quindi decisi di smaltire il mio panino
volando sui terreni sterrati e arrivando per primo a consegnare le biciclette e
salvare il gruppo dalla sovratassa per l’affitto. Ma si sa: la fretta è cattiva consigliera e
poi le biciclette affittate ai turisti a
4 euro per una giornata intera non hanno freni.
C’è da dire
che sono caduto molte volte in bici,
tutte erano cadute molto ridicole, una volta andai a sbattere di muso su
un segnale di stop. Se qualcuno dovesse passare per le zone basse di Tito può
ancora osservare i cimeli: la macchia di sangue a metà dell’asta del
segnale che se ne stà ancora pendente.
Ma tutte le volte ero solo. Questa volta invece ad assistere la scena c’erano
nell’ordine: il custode donna del parco, il mio compagno di viaggio numero 1,
coinvolto anche lui nella caduto, la mia bicicletta dopo diverse capriole nell’aria ha preso la sua,
il compagno di viaggio numero 2,che è passato a tutta birra al nostro fianco
mentre ci dimenavamo a terra, e la mia ragazza,che era rimasta indietro a
scattare le ultime foto, a lei dedicai lo spettacolo più tragico di tutta la
caduta, che a 60 km all’ora offrì un’emozione degna delle migliori “ultimate
fail compilation”: lo svenimento.
Le cicatrici
della caduta le porto come ricordo sulle mie braccia.Ma con orgoglio posso dire
che da quel giorno ho usato anch’io il
fatidico “sacarme la Chuhca”.
Paz,amor y
libertad!
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