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lunedì 9 settembre 2013

Le origini: Tito.

LE ORIGINI : Tito


 Ogni viaggio ha sempre un inizio ed una fine. La banalità di questa frase è direttamente proporzionale alla realtà delle cose. Quello che 9 mesi fa mi sembrava un autentico salto nel vuoto oggi può essere definito come  il salto mortale più  spettacolare della mia vita.  Come tutti i tuffatori, dopo un tuffo da 10, sono rimasto piacevolmente scioccato  a fissare la mia opera d’arte,mentre tutto intorno a me scivolava.
Così mentre il mio cervello rimaneva fisso nelle imprese memorabili di 9 mesi della mia vita,  il tempo scorreva inesorabile e mi rimandava  alla mia realtà : Tito.

Tito è la  mia Itaca, solo che a differenza di Ulisse non ci sono sirene,  ciclopi , tempeste e maghe a  interporsi tra me e  il  ritorno. I miei mostri sono  le immagini che la mia coscienza proietta nella mia mente, consapevole  appunto della realtà in cui la mia Itaca riposa.
Da tempo avrei voluto scrivere delle mie origini, delle mie radici,  di Tito. Ma solo ora, che la distanza ha assottigliato i lazzi che mi legano al mio passato, ho la lucidità e la voglia di ripercorrere il mio paese e di raccontarlo.

 Ritornare d’estate a Tito mi permette di godere della bellezza del camminare , rinfrescato dalla brezza estiva, in viuzzole troppo anguste per la modernità delle automobili,ma che sono l’habitat ideale per una delle più singolari specie della fauna autoctona la “donna comare”. Questa meraviglia della natura si alimenta di pettegolezzi e vive in ambienti piccoli e chiusi. Questi  esempi di perfezione di biologia umana, molto spesso di piccole dimensioni, sono riconoscibili a distanza per i  versi che emettono. Recitano pettegolezzi a mo’ di rosario, tra di loro l’italiano perde il suo ritmo melodico e si trasforma in una serie di codici criptati. Dall’unione di questi codici  con la velocità  nel pronunciarli e il volume della voce nel farlo(decisamente basso) nasce il  brusio caratteristico di questi esseri. “Le donne comari” vivono in gruppi grandi,quasi in simbiosi con  le appartenenti al gruppo, non c’è pettegolezzo che passa in sordina,tutto, ma proprio tutto viene setacciato dalle lunghe e affilate lingue. Sono le orecchie e l’occhio grande del paese. Non sanno cosa sia l’omertà, tutto quello che scoprono lo rivelano, sono le paladine della libera informazione. D’estate si dedicano alla loro attività all’aperto, occupano i luoghi simbolo del paesino. Le generazioni più antiche di questa specie occupano il centro storico. L’italiano ,in questo ceppo , lascia il posto al titese arcaico , le radici dei loro modismi sono ancora fonte di ricerca di dialettologi di mezzo mondo. Il centro storico, in estate, diventata un labirinto impenetrabile. I più temerari, come Ulisse con le sirene , percorrono i km pavimentati a pietre del centro storico e l’asfalto rovinato del Borgo San Donato con il petto all’infuori e le orecchie ben aperte. Pochi, però resistono ai versi delle “Comari”. E’ comune cadere nelle mille tentazioni offerte,la più pericolosa: un invito a prendere il caffè. E’ capitato più di una volta che qualche temerario non abbia resistito e ,sfiancato dal richiamo del pettegolezzo, sia caduto vittima delle comari
.
Il corrispettivo maschile  della “donna comare” è l “homo seggio”. A differenza delle comare l’ “Homo seggio”, dopo una vita passata a  lavorare le campagne ormai sterili e abbandonate, decide di passare la sua terza età occupando vita natural durante la monumentale fontana di Piazza del Seggio e le annesse scalinate. L’homo seggio svolge prevalentemente il lavoro sporco di controllo degli accessi alla zona “mondana” del paese, la zona del passeggio, insomma la movida. L’homo seggio è il check in di Tito,non c’è targa che non riconosca. Sa con precisione il numero  esatto di “Punto” rimaste in circolazione. Il suo lavoro noioso è un contributo fondamentale per alimentare le storie delle comari. Infatti, spesso, la compagna di vita dell’”homo seggio” è la “donna comare”, da questo incrocio perfetto nasce l’ideal tipo di titese.

Le generazioni successive di titesi sono più aperte alla modernità e sfruttano tutte le opzioni che gli offre la globalizzazione 2.0 per emanciparsi dal vecchio pettegolezzo e rifondarlo. I giovani hanno lasciato il centro storico e la piazza al controllo delle vecchie generazioni occupando il chilometro e mezzo della vecchia strada statale,che collegava Tito  a Satriano. L’attività preferita è il passeggio. La strada statale e  le “villette” adiacenti sono il micro mondo titese, l’apertura al cambio e alle nuove tendenze. Si osservano quasi  tutte le subculture urbane, che a Tito attecchiscono a forza, nutrendosi del normale malcontento giovanile  e della disillusione frutto di una situazione generale immobile , che segna ,ha segnato e segnerà la storia del Popolo Lucano.

Nelle fresche notti estive convivono comitive di pre adolescenti alla moda, con l’ultimo modello di I-phone, con le comitive di rocchettari, con le loro magliette da concerto. Qualche emo,che per sbaglio si trova percorrere il “miglio grigio” del passeggio titese colora di nero le strade. Quà e là  le rime dei rapper nostrani ,altoparlanti del disagio .L’esplosione di colori si completa  con le gamme eccentriche degli aspiranti calciatori e “tronisti” ,immancabili anche a Tito. Il tutto accompagnato con il ronzio  dei “cinquantini" modificati, cadenzati dai bassi dei “venditori di candeggina” di una volta, che passano le notti sui loro macchinoni-discoteca modificati , sfoggiando i loro subwoofer.

La vita brulica d’estate per le vie cittadine e sonnecchia d’inverno. L’orologio scandisce gli stessi ritmi di 50 anni fa,eredità della saggia cultura contadina ,la fortuna di Tito che fu. Le giornate cominciano e finiscono seguendo il percorso nel cielo del sole. Ma dietro le pietre del centro storico, gli orti della zona bassa, i palazzoni della zona nuova, cova il malcontento, frutto di anni vissuti al di sopra delle nostre  possibilità.
A 13 mila km da casa, quando ascoltavo le lamentele dei boliviani ,illusi e derubati delle loro ricchezze 500 anni orsono dai primi esploratori ed oggi dai nipoti dei colonizzatori con accenti stranieri, non mi sentivo poi così stranito. I boliviani rivendicano le loro radici, strappate a forza dal “bianco invasore”,consapevoli che per vivere il mondo moderno bisogna correre,ma incuranti delle competizioni,baratterebbero tranquillamente le connessioni wi fi  con il pezzo di terra che gli permetterebbe  di vivere con poco,ma felici.

Anni di promesse di politici corrotti ,che con la mano sinistra rubavano il pane ai contadini e con la destra  ne distribuivano le briciole, illudendo il popolo contadino che la rivoluzione industriale anche qui,tra i boschi e i fiumi gli  avrebbe permesso di raggiungere il progresso e vivere meglio, hanno paralizzato il paesello,cavalcando i fasti dell’era dell’opulenza tra gli anni '80 e '90.  Si costruirono fabbriche , si tagliarono i boschi. Oggi le fabbriche anche a Tito sono quasi tutte chiuse.  Gli alberi non crescono più e quello che 15 anni fa era destinato ad essere uno dei poli industriali migliori del centro sud italiano è un cimitero di enormi capannoni. Le fosse dei gessi utilizzati dalla chimera del siderurgico devastano il territorio e ammazzano la  gente.

Le viuzze del paese nelle sere estive continuano a brulicare di gente ed alimentare  le contraddizioni. Un paese che invecchia e si spopola precocemente. Questo è Tito.
La mia decisione di andare via ,allungare le radici fino  a rischiare di romperle completamente, è stata una scelta sofferta ma obbligata.  Tito per me è rimasto il paesino dall ’atmosfera ovattata degli anni della mia infanzia, il tipico paesino lucano, in cui  il calore del sole, che illumina la nostra vallata ,viene aumentato dal calore della gente. Tutti ti conoscono ,tutti si conoscono ,come in una grande famiglia. I battibecchi sono all’ordine del giorno,ma regna sempre la pace. Porto Tito nel cuore come i soldati al fronte portavano le immagini scolorite delle loro famiglie.
La posizione geografica di Tito, protetto a nord, sud, ovest e est da verdi montagne  è perfetta per far attecchire profonde radici, che si alimentano di tradizione e aria pura.  L’orizzonte sconfinato dei deserti sudamericani o della pianure del nord Italia a Tito si accomoda oltre le montagne, meno sconfinato. Tutti noi titesi cresciamo  impossibilitati a guardare oltre ,ma non importa, perché  la famiglia, il vero punto fisso delle 7 mila anime che popolano questa verde manciata di km quadrati, è il nostro nord. L’unica salvezza di queste terre martoriate è il tessuto familiare che ha resistito a stento ai continui sussulti di modernità.
Tornare a Tito è un tuffo nella contraddizioni. Un boccata di aria fresca tra le coccole della famiglia e le piccole tradizioni,che ancora resistono al tempo, che dopo un po’ diventa aria irrespirabile claustrofobica, desolante.

Me ne vado con la speranza di tornare con la forza di cambiare le cose, affinché l’immagine sbiadita riacquisti i suoi colori originali.

Paz,amor y libertad!