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martedì 15 aprile 2014

Cile e catastrofi



Le notizie catastrofiche arrivate dal Cile mi hanno riportato alla realtà dei fatti: Il Cile,una lunga striscia di terra di quasi 5000 km con una larghezza media di 200 km,chiusa quasi interrottamente ad est dalla Catena delle Ande,la colonna vertebrale dell'America del Sud, e ad ovest dal maestoso oceano Pacifico , è il paese più “tremolante” al mondo.
Dati alla mano basterebbe prendere i 2 terremoti più forti che lo hanno colpito dal 2010 ad oggi , per l' esattezza rispettivamente Febbraio 2010 magnitudo 8.9 e Aprile 2014 magnitudo 8.2, per consegnare al Cile questo preoccupante primato. Se questo non dovesse bastare ,per rendere l'idea, si può guardare alla classifica dei mega terremoti, il più intenso mai registrato al Mondo avvenne in Cile nel 1960, al sud nei pressi della città di Valdivia, quella volta la magnitudo era 9.5. Un livello così alto nella scala Richter inimmaginabile per noi Italiani.
Di terremoti così intensi i Cileni ne aspettano uno ogni 10 anni,questa è più o meno la frequenza osservata nell'arco di 150 anni. In uno scenario così apocalittico il temutissimo big one,lo spauracchio di tutti gli abitanti di S. Francisco, è una spada di Damocle pendente sul capo di ogni Cileno. Chiaramente questo ciclo infernale è ritmato da una miriade di terremoti minori,che i Cileni chiamano tremori,se inferiori a 7 gradi di magnitudo.
Ad ognuno di noi basterebbero queste statistiche per convincerci definitivamente ad eliminare il Cile come meta per le nostre vacanze. In effetti,io ,prima di arrivare a Valparaiso e cominciare il viaggio, due o tre scongiuri li ho fatti.
In Cile però le preoccupazioni maggiori non arrivano dai terremoti,ma dagli Tsunami . Basti pensare che nel terremoto del 2010 quasi tutte le vittime (circa 700) sono morte a causa delle mareggiate arrivate poche ore dopo. Anche il 2 aprile scorso il toto-Tsunami ha tenuto con il fiato sospeso i milioni di abitanti delle coste cilene e gli altri vicini costieri di tutta L'America LATINA ,sponda Pacifico. Per fortuna l'allarme è rientrato presto.
In uno scenario così apocalittico l'unica alternativa all'esodo di massa dei 17 milioni di cileni è l'organizzazione e la prevenzione. Sopratutto dopo il 2010 ogni cileno conserva una valigia pronta con l'occorrente : documenti,vestiti, medicine e qualche scatoletta , ai lati del letto o della porta d'ingresso,ma comunque ben visibile per ricordare costantemente l'effettività della minaccia.
L'altro promemoria della catastrofe, onnipresente nelle città costiere cilene , è il cartello verde con omino bianco in fuga,recante la scritta : “via di fuga”, al lato una freccia bianca punta le colline,l'unico rifugio in caso di Tsunami.
Guardando da vicino le Ande oltre ad prezzare la bellezza e maestosità di 6000 metri di montagne e delle rispettive vette innevate,che giocano con i colori durante il giorno, si può costatare anche la loro natura. Molte sembrano montagne mozzate si tratta chiaramente di vulcani.
Le Ande cilene annoverano un numero altissimo di vulcani,spenti ,assopiti o attivi. Nel mio lungo viaggio posso vantare di essere scampato all'eruzione di uno dei tanti vulcani nel regione del Bio Bio, 500 km a sud di Santiago.
Eravamo in viaggio verso Chillan,la capitale della regione, per far visita ad una nostra cara amica. Nel tragitto in autostop in 200 km ho contato 5 vulcani. L'eruzione avvenne giusto il giorno successivo alla nostra partenza. Le immagini dei lapilli che venivano sputati fuori dalla pancia del vulcano e della cenere che ricopriva interamente le città erano onnipresenti sui telegiornali in quei giorni di eruzione, per fortuna normale e non catastrofica.
Mi trovavo in un paesino a 3500 mt di altezza,sulla frontiera tra Cile e Bolivia. Tanto per cambiare il cartello di benvenuto al paesello ,oltre a riportare le informazioni sul numero di abitanti e l'altezza del villaggio,esordiva con “Ollague, terra di Vulcani e salari eterni”. Ollague è il nome del vulcano dormiente che si trova giusto sulla frontiera,un gigante addormentato di 5 mila e passa metri. I soliti cartelli “via di fuga” puntavano a una montagna,un po' più bassa,meno imponente e innevata. Dall'altra montagna si levava una nuvola bianca. Rimasi scioccato quando ,chiedendo se si trattasse di una valanga, mi risposero che la nuvola bianca in realtà era fumo e che l'innocua montagna era un vulcano attivo. Insomma mi trovavo di fronte al paradosso: le poche centinaia di abitanti del villaggio,in caso di eruzione del gigante addormentato avrebbero dovuto correre fino alle pendici di un vulcano attivo per ripararsi.

Quando passeggiavo lungo la costa o quando un piccolo tremore mi cullava sentivo tutta la forza di una natura selvaggia e indomita,che in Cile marca in diversissime forme la sua supremazia sull'uomo. I terremoti,gli tsunami e i vulcani sono solo la sua manifestazione più estrema e scioccante. A volte la catastrofe è frutto della cooperazione della premiata ditta uomo natura, questo è il caso degli incendi.
 La baia di Valparaiso, con i costanti venti che si levano dal pacifico ,i verdi boschi che svettano sulle 44 colline che la circondano e il suo clima secco è la miscela ideale per una bomba di fuoco micidiale. Mentre scrivo 10 dei 44 colli di Valparaiso ancora bruciano, 5000 sfollati vagano per la città in cerca di aiuto e corpi carbonizzati vengono estratti dalle macerie delle loro case. E' in atto l'incendio peggiore della storia della città, che pure ne subisce 3 o 4 all'anno.
La prevenzione si scontra con la povertà. I Colli della città sono la parte povera,disseminate di baracche di legno che hanno resistito a terremoti incredibili,ma che bruciano veloce.
In Cile non esiste una protezione Civile,il governo stanzia pochissime risorse per la prevenzioni, pochi piani di aiuto per chi ha perso tutto. Il Cile non previene,ma reagisce. Quando parlavo con i miei amici cileni di terremoti alle mie facce preoccupate,quasi terrorizzate,loro opponevano tranquille risatine. I Cileni hanno imparato a convivere con le catastrofi. I Pompieri che in questi giorni stanno spegnendo il grande fuoco di Valparaiso sono volontari,in Cile non esiste un corpo ufficiale di pompieri, eppure in ogni crisi,sono sempre presenti.
Le immagini del fuoco che mangia gli scheletri delle baracche in questi giorni sono spesso affiancate da interviste a persone che hanno perso tutto,ma non hanno perso la speranza, inferocite con il governo, giurano di ricostruirsi da soli le proprie case,senza alcun tipo di aiuto.
Quando arrivai nelle zone più colpite dal terremoto del 2010, rimanevano pochi segni di distruzione, eppure i ricordi della mia infanzia sono le stradine del centro storico di Tito disseminate di impalcature, erano passati 15 anni dal terremoto dell'Irpinia e la ricostruzione andava a rilento.
Chiaramente il paragone non si pone,ma rimane vivo in me lo stupore verso questo popolo così umile e coraggioso.

Paz,amor y libertad!

venerdì 21 marzo 2014

Bolivia e Coca ovvero: un viaggio allucinante.



BOLIVIA E COCA, OVVERO UN VIAGGIO ALLUCINANTE.
Premetto che il titolo non c’entra molto con il senso del post,ma suona bene. Non parlerò di come ho macinato km e km di strada grazie ad aiutini speciali. Per rassicurare mia madre: “non ho mai pippato in Sudamerica,ma anche in generale”.
Anche se quando mi parlavano del sali-scendi con un’altezza costante di 3000 metri e mi descrivevano la coca come un tocca sana ,una sorta di panacea contro tutti mali da aria rarefatta, mi immaginavo i Boliviani con i loro cappelli di lana di alpaca e lama chiusi nei bagni pubblici a tirar sù raglie chilometriche. Ma ovviamente non è così, anche se il paradosso dell’immagine mi stuzzicava molto.

La coca intesa come pianta proprio  non me la immaginavo. Rimasi stupito quando in un mercatino etnico cileno il mito si palesò davanti ai miei occhi sotto forma di foglia verde ,simile per forma e colore a una foglia di tè comune. Di straordinario in quella manciata di foglie c’era solo il prezzo, un sacchetto con  una cinquantina di grammi costava intorno ai 10 euro un’enormità visto il prezzo della coca autoctona boliviana. Ma nonostante il mio primo contatto visivo fosse stato una vera delusione rimasi più che mai convinto di provarla non appena fossi arrivato in Bolivia.
A smorzare il mio entusiamo, quando mancavano pochi giorni d’autostop “al paese dei balocchi”, ci pensò il camionista boliviano,per intenderci uno degli esponenti della categoria dei camionisti “sport illustrated”,meglio conosciuti come i collezionisti di calendari ( http://persillo.blogspot.it/2013/05/un-viaggio-ascrocco-i-camionisti.html). Tra una mostra di seno e l’altra mi confidò che non era così comune trovare gente che usava coca per l’altezza,ormai le foglie di coca erano sostituite da anonime pillole.

Dopo tutto il parlare e il sentito dire, chiaramente la prima cosa che feci una volta arrivato in Bolivia fu : Uscire a cercare  cocaina(chiaramente le foglie). Dopo la nostra scellerata scelta di attraversare in camion il confine cileno-boliviano più remoto,ci trovavamo spersi ad Uyuni: la città,si fa per dire, del Salario più grande al mondo. Nonostante le mie priorità fossero le ferite enormi che avevo un po’ su tutto il corpo,dopo la caduta in bici(http://persillo.blogspot.it/2014/01/sacarse-la-chucha.html) decisi di affrontare le strade fanghose ,potenziali serbatoi di batteri, alla ricerca della coca.

Il primo mercato a cielo aperto boliviano mi lasciò a bocca aperta. L’esplosione di colori aveva come unica rivale , in termini di strabiliante e impattante, l’esplosione di sapori e measmi(molto più measmi). Le mosche banchettavano  sulle carni in mostra dai macellai, il sangue s’appiccicava al pavimento polveroso, il sole seccava i formaggi di capra esposti ed io ,allucinato dagli stimoli sensoriali, mi dimenticavo dell’unica cosa che mi aveva spinto a superare i dolori delle ferite e la stanchezza del viaggio: La cocaina.

Nonostante tutto era difficile dimenticarsi della cocaina. Enormi sacchi di 50 kili riempivano quà e là sgabuzzini stracolmi, dai quali facevano capolino le “Choline” boliviane. Le loro trecce inconfondibili erano insieme alle mani callose e ai denti consumati il distintivo della cocalera(contadina della coca).  La professione del cocalero è diffusissima in Bolivia,chiaramente il mercato che viene soddisfatto dalla enormi quantità è quello nero delle droghe e comunque tutto quello che viene pordotto viene esportato, quello che rimane in Bolivia è la coca da masticare, il toccasana contro il male d’altitudine. Così ,giusto per informazione, il sindacato dei cocaleros è diventato sempre più influente fino ad esprimere un proprio candidato presidenziale,in questo caso l’attuale Presidente Boliviano : Evo Morales.
 Insomma le floride montagne boliviane baciate dal sole tropicale e dissetate dalle piogge torrenziali sono l’habitat perfetto per la piantina di coca,che solo una volta raffinata diventa la celberrima cocaina.

Ritornado a noi,la coca viene venduta in pacchi di dimensioni diverse,anche all’ingorsso nei vari mercati. Quel giorno usciì dal mercato di Uyuni con 300 grammi di fogliame per meno di 1 euro. Le foglie di coca sono il compagno di viaggio ideale. Togliendo il pistillo le foglie sono pronte per essere accumulate nella bocca. Le tipiche bolas(palle) ,che gonfiano le guance del boliviano medio, sono la forma ideale per assumere a rilascio lento piccole quantità di principio attivo della coca. La quantità rilasciata equivale  a qualche tazzina di caffè. Le foglie di coca sono un ottimo anestetico,appena entrano a contatto con la lingua l’addormentano, riempiendo le papille gustative di un retogusto amarognolo,ma piacevole. Gli effetti collaterali sono :
  
inappetenza,che nel caso di molti boliviani è un bene,visto i loro salari ;

 nervosismo, se assunta in grandi quantità e magari accompagnato da alcolico,  e questo è un male per i Boliviani che hanno un tasso di consumo di alcolici alle stelle, ed è stato ancora peggio per me,che mi sono ritrovato più di una volta   assidui consumatori di coca e alcol a guidare i  bus in via di rottamazione tra tornanti vertiginosi, di notte.

Paz,amor y libertad!

martedì 21 gennaio 2014

Sacarse la Chucha



“Sacarse la Chucha” tradotto letteralmente dal Cileno all’Italiano avrebbe davvero poco senso. Suonerebbe tipo “togliere la cosa”. Chucha è l ‘equivalente del toscano “coso”. I Cileni parlano così velocemente  che ,a volte, gli si offusca il cervello e le parole mancano,l’unica soluzione alla momentanea apnea celebrale è inventarsi parole semplici e dargli significato a piacere, spesso questi neologismi casuali diventano di uso comune. Per chi volesse avventurarsi ai confini del mondo ,spingendorsi a ovest del nostro continente nella terra dei terremoti ,del rame e  di Vidal, è utile sapere che il forbito vocabolario cileno si arricchisce di parole multi-uso, fondamentali in momenti di difficoltà. Oltre alla “Chucha”, vi è  l’onnipresente “wea”, più o meno l’omologo, non esiste in nessun vocabolario spagnolo,ma in Cile è sulla bocca di tutti. Poi vengono i vari derivati, il più famoso è  “weon”, che detto in cagnesco è un appellativo offensivo,l’equivalente del nostro coglione, che all’occorenza,con il sorriso sulle labbra, si trasforma, come la “chucha”, in coso.

Tornando a noi: “Sacarse la chucha”. Questa è la tipica esperessione ,per avvicinarci meglio alla comprensione del significato,che i “guappi” dei quartieri cileni usano  per riassumere una rissa finita male: “Nos Sacaron la Chucha”. È la tipica espressione che i genitori stremati dai capricci del figlio ribelle usano come ultimo disperato appello per redimere il “figliol prodigo” , di solito suona  così: “te vamos a sacar la chucha”.

Nel viaggio sono stato spesso in situazioni limite, ho rischiato molte volte di “sacarme la chucha”, per questo controllavo attentamente ogni possibile segno di squilibrio dei camionisti che ci accoglievano, cercavo di arrivare sempre con la luce in tutti i nuovi posti,boschi ,spiagge etc, per controllare ogni minimo dettaglio,ogni possibile via di fuga in casi estremi; per questo sorridevo a tutti prima di aprire bocca; Insomma per questo sono diventato quasi un paranoico.

Certo immaginavo ,che primo o poi il mio turno di “sacarme la chucha” sarebbe arrivato,ma in tutte le mie premonizioni era sempre dopo uno scontro epico con bruti che cercavano di assaltare il mio accampamento e  i miei amici (insomma le tipiche premonizioni di serie-dipendenti, nello specifico “the walking Dead”). Invece l’appuntamento con il destino arrivò giusto un’anno fa,era una tipica giornata  calda e secca nel deserto dell’Atacama. Decidemmo di avventurarci alla scoperta delle magnifiche valli scavati da fiumi preistorici ,che cambiano colori ad ogni ora del giorno. IL rosso secco,passa ad un’arancione intenso, poi sfuma in un arancione pallido,viola,rosa. La “Valle de la luna” ,che molti complottisti ritengano essere stato il set americano per girare il film dell’allunaggio, al tramonto è una tinozza impazzita. I colori saltano da un angolo all’altro dell’orizzonte,si poggiano sulle vicine Ande e rimbalzano,trasportati dal vento, sulla terra secca e lì rimangono fino a lasciare il posto alla chiara oscurità delle notti di luna piena.

Eravamo arrivati a godere di questa meraviglia in bici,dopo una ventina di Km di sali e scendi piacevoli. Il panino che addentavamo fissando la festa di colori era il giusto premio alle nostre fatiche e la riserva di energia per il ritorno. S’era fatto tardi e dovevamo tornare di corsa a San Pedro dell’Atacama per restituire le biciclette. Mi sentivo Pantani, quindi decisi di smaltire il mio panino volando sui terreni sterrati e arrivando per primo a consegnare le biciclette e salvare il gruppo dalla sovratassa per l’affitto.  Ma si sa: la fretta è cattiva consigliera e poi le biciclette affittate  ai turisti a 4 euro per una giornata intera non hanno freni.

C’è da dire che sono caduto molte volte in bici,  tutte erano cadute molto ridicole, una volta andai a sbattere di muso su un segnale di stop. Se qualcuno dovesse passare per le zone basse di Tito può ancora osservare i cimeli: la macchia di sangue a metà dell’asta del segnale  che se ne stà ancora pendente. Ma tutte le volte ero solo. Questa volta invece ad assistere la scena c’erano nell’ordine: il custode donna del parco, il mio compagno di viaggio numero 1, coinvolto anche lui nella caduto, la mia bicicletta dopo  diverse capriole nell’aria ha preso la sua, il compagno di viaggio numero 2,che è passato a tutta birra al nostro fianco mentre ci dimenavamo a terra, e la mia ragazza,che era rimasta indietro a scattare le ultime foto, a lei dedicai lo spettacolo più tragico di tutta la caduta, che a 60 km all’ora offrì un’emozione degna delle migliori “ultimate fail compilation”: lo svenimento.

 A 2500 metri di altezza, nel deserto più arido del mondo  la mia caduta aveva proprio tutto:  la spettacolarità ,la tragedia il tutto contornato da incredibili giochi di luce. Dopo 10 minuti di show, io che subito dopo la botta,ancora tramortito e sanguinante provavo a camminare e cadevo, arrivò a completare il quadretto anche l’angelo custode dal pick-up rosso. Nonostante i 40 gradi sentivo un feddo pazzesco,il pick up correva il più possibile,arrivammo all’ospedaletto da campo giusto in tempo per perdere la seconda volta i sensi. La nostra storia di viaggi a scrocco e accampate aggratiss commosse l’infermiera, che dopo averci offerto una notte a prezzo speciale nel suo ostello, ci regalò le garze e tutto l’occorrente per medicare i tagli profondi sulle braccia,sulle gambe e sulla schiena. Il “Dulcis in fundo” fu l’ancora più generosa concessione. L’infermiera ci presentò il conto(intorno ai 20 euro) mi guardò impietosita e mi disse :” sicuro per fare sto viaggio non avete soldi,dovrei farvi pagare,ma…. Andate!”

Le cicatrici della caduta le porto come ricordo sulle mie braccia.Ma con orgoglio posso dire che da quel giorno ho  usato anch’io il fatidico “sacarme la Chuhca”.
Paz,amor y libertad!